The

A look outside the water
by Luisa Scarlata

Mai contare ciò che conta. 

Mai contare ciò che conta. 

credit: SchoolCal

Oggi – ahimè – ho deciso di fare un po’ di calcoli: ma quanto costa davvero la scuola di mio figlio? 

Calendario alla mano, ho cominciato a contare. Le lezioni sono iniziate da 4 mesi, ma tra feste, eventi e le tantissime malattie causate – per paradosso – dal fatto stesso di andare a scuola (lo sapevate che statisticamente un bambino che frequenta l’asilo si becca in media un virus a settimana?), ecco i giorni che ha davvero trascorso in classe:

Settembre: 12 giorni; ottobre: 15 giorni; novembre: 11 giorni; dicembre: 6 giorni.
Non credo ai miei occhi: il totale fa 44 giorni. Ovvero, 1 mese e 13 giorni. Invece di 4.

Se considero che la retta mensile (e parliamo soltanto dell’asilo!) costa quanto l’affitto di un monolocale, faccio presto a realizzare che in realtà, 44 giorni di scuola, sono costati quanto un attico super lusso. Assurdo – mi dico – è un furto legalizzato.

Poi tolgo le mani dai capelli, spengo la calcolatrice, straccio il calendario e realizzo una grande verità: se non vuoi farti del male, non contare mai ciò che conta.

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December 5th, 2013

Never count what counts.

Never count what counts.

credit: SchoolCal

Today, my bad, I decided to do some math: how much does it costs, for real, my kid’s school?

Calendar at hand, I started counting. Lessons began 4 months ago, but with festivities, events and various illnesses caused by – that’s the paradox – going to school (did you know that statistically children in kindergarden get 1 virus per week?) these are, in reality, the actual days my son spent in the class:

September: 12 days; October: 15 days; November: 11 days, December: 6 days. It’s unbelievable. Total is 44 days, that is 1 month plus 13 days. Instead of 4.

If I consider that the monthly rate for a private school (and we are talking about kindergarden!) is like a studio flat rent, it’s easy for me to realize that in the end, 44 days of school cost like a luxury penthouse. Absurd, a legal robbery.

Then I take out the hands from my hairs, turn off the calculator, throw off the calendar and realize a big truth: if you don’t want to hurt yourself, never count what counts.

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December 4th, 2013

Tacchi.

Tacchi.

credit: tacchi

Capitolo 1. Il tempo di soffrire.
Prima di tutto, una certezza: ti farai male. Sui tempi, però, le possibilità sono varie. Ci sono quelli a lunga durata (per ovvie ragioni, i preferibili): con questi il dolore comincia “solo” dopo circa sei ore o dopo lunghissime camminate. Una manna dal cielo. Anzi, da terra. Dopo si va solo a peggiorare, fino ad arrivare a quelle scarpe col tacco che ti fanno male esattamente nello stesso istante in cui le metti. Effetto tortura. Anche se del tuo numero, la scarpa sembra infatti decisamente più piccola del tuo piede. In genere, ovviamente, sono le più belle. Bastarde dentro, uno spettacolo fuori.

Capitolo 2. Occhi bassi, baby.
Questo forse vale solo per quelle città o per quei paesini dove le strade hanno fatto la storia. Hai i tuoi tacchi, sei più alta, le gambe sembrano più belle e affusolate. Stai passeggiando e vorresti tanto rilassarti, guardarti intorno, goderti il panorama (o i negozi). NIENTEDAFARE: hai un problema. Il tuo splendido tacco a spillo pagato a peso d’oro rischia ogni secondo di infilarsi nell’incavo tra un sanpietrino e l’altro con tre possibili, tragiche conseguenze:
a)  la vernice o la stoffa della tua scarpa vengono ferite mortalmente;
b)  inciampi come una scema sotto gli occhi di tut
ti;
c)  (la più frequente) la tua scarpa rimane incastrata, tu avanzi e ti ritrovi scalza a tornare indietro saltellando sull’altro tacco (ahi! fa male solo a scriverlo). 

Nessuna delle tre sciagure può essere permessa. Così mentre gli altri si divertono, parlano, scherzano o semplicemente si guardano intorno, tu cammini a testa bassa, squadrando ogni centimetro dell’asfalto sottostante con l’ansia di finire dentro una terribile trappola. Come se non bastasse da fuori sembri una patetica ubriaca che cammina a zig zag. Insomma: i tacchi o la storia. Delle due, vi prego, una.

       
Capitolo 3. A me il braccino.
Gli uomini possono essere di disturbo ma ammetto che servono anche a parecchie cose. Un uomo, ad esempio, può migliorare la qualità della tua vita quando sei sui tacchi. Il tutto si può riassumere così: vestiti, scegli i tuoi trampoli preferiti, chiama il tuo braccino da passeggio e appoggiati a lui. Risultato: più equilibrio, più stabilità, più controllo. Sopratutto potrai finalmente guardarti intorno e magari, alla faccia del povero braccino, trovare il bicipite della tua vita.

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November 16th, 2013

Quando, se una donna ti lasciava, le scrivevi una canzone.

Quando, se una donna ti lasciava, le scrivevi una canzone.

credit: brucediane

Non è stato dimostrato, né è mai stato esplicitamente confermato dal diretto interessato, ma si dice che Bruce Springsteen scrisse “Bobby Jean” per lanciare un messaggio alla sua ex fidanzata Diane Lozito.

Era infatti accaduto che dopo qualche tempo, come capita a tutti i comuni mortali, la relazione fra Bruce e Diane si era logorata. Quindi un giorno, improvvisamente, lei fece le valigie e se ne andò dalla casa in cui abitavano insieme.

Ai tempi non esistevano i cellulari, né tantomeno facebook, perciò se una donna ti lasciava e non voleva farti sapere dove andava, non solo era liberissima di farlo ma soprattutto non aveva modo di essere rintracciata.

Negli anni ’70, quando Bruce tornò a casa e si accorse che Diane aveva deciso di andare via, non ebbe dunque altra scelta che accettare e rassegnarsi. Due parole estremamente importanti.

Non c’era proprio modo infatti, per lui, di sapere dove diavolo se ne fosse andata. Altro che telefonate ossessive, inseguimenti, torture, stalking e persino omicidi, come succede ai nostri giorni.

Allora si soffriva. Si incassava. Si andava avanti. Perché il fatto che ognuno è libero di andare dove vuole era qualcosa di semplicemente assodato.

Sono stati dunque questi mezzi a creare in noi l’idea di poter controllare e addirittura possedere le persone? L’idea che soffrire per la perdita di qualcuno possa giustificare la voglia di eliminare il motivo di questa sofferenza?

Certo anche Bruce non ci rimase bene. Al contrario ci rimase talmente male che molti anni dopo scrisse ancora una canzone per Diane. Si intitolava “Bobby Jean” e iniziava così:

Beh, sono passato da casa tua l’altro giorno
tua madre ha detto che te ne eri andata
ha detto che non c’era nulla che avrei potuto fare
non c’era nulla che nessuno avrebbe potuto aggiungere
“.

Poi Bruce continuava esplicitando il suo disarmo di fronte al non sapere dove fosse andata Diane:

…può darsi che tu sia qua fuori
o in quella strada da qualche parte
in qualche autobus o treno viaggiando lontano…
“.

Infine Bruce chiudeva la sua canzone nel modo più bello, che dovrebbe insegnare molto agli uomini così deboli di oggi: non ci sono vendette, non ci sono maledizioni piuttosto un augurio che solo chi sa amare davvero è capace di fare:

…in qualche stanza di un motel
dove ci potrà essere una radio che suona
e tu mi ascolterai cantare questa canzone
beh, se è così sappi che sto pensando a te
e a tutte le miglia tra noi
e ti sto giusto chiamando un’ultima volta
non per farti cambiare idea
ma solo per dirti che mi manchi amica:
buona fortuna, addio
Bobby Jean”
.

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October 20th, 2013

Voi come fate a scegliere?

Voi come fate a scegliere?

credit: stuartpilbrow

Available in english

A volte la libertà, il libero arbitrio, la possibilità di scegliere, possono essere un trappola, trasformarsi in una prigione nelle mani di chi non sa ben utilizzare o gestire queste fortune.

Vi è mai capitato di essere davanti ad un mucchio di opportunità e piuttosto che sentirvi felici, di essere oppressi, frustrati o addirittura – che paradosso – totalmente bloccati per l’incapacità di scegliere? E ancora, vi è mai successo di decidere di perseguire una via e, anziché essere soddisfatti, di viverla perennemente male, ossessionati dal pensiero che un’altra strada poteva essere migliore o che comunque state facendo una cosa ma per il solo fatto di aver scelto quella automaticamente non farete mai tutte le altre che avreste comunque voluto fare? Avete mai pensato che a volte avere troppe possibilità è un minus anziché un plus? Che magari è proprio vero che, per esempio,  chi è più povero o semplicemente più mediocre, è davvero più felice poiché paradossalmente più libero dalle infinite possibilità di fare, di avere, di raggiungere e quindi forse anche di pensare?

Lo spiegava bene quel capolavoro di Giuseppe Tornatore “La leggenda del pianista sull’oceano“. Il protagonista “T.D. Lemon Novecento” non scendeva mai dalla nave, non era mai andato nel mondo, semmai era il mondo che passava da lui, crociera dopo crociera. E quando il suo amico Max osò chiedergli come mai non gli era mai venuta voglia di mettere piede sulla terraferma, lui gli aveva risposto: “Sei matto? Come fate voi che vivete nel mondo a prendere una decisione, a scegliere in un luogo così incredibilmente vasto e ricco di possibilità? Se solo si pensa a quante strade ci sono…”. E poi, la domanda più importante, più acuta, più intelligente: “Come fate a decidere quale prendere?”.

Già. Come facciamo? Come faccio? E voi, come fate voi a scegliere?

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October 10th, 2013

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