La commedia italiana contemporanea: patinatura o critica sociale?
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La buona commedia all’italiana è quella che ha raccontato meglio l’Italia. Se vogliamo capire il nostro Paese basta guardare i film di Monicelli, Germi o Scola: sono più esplicativi di qualunque altra cosa. Eppure quello della commedia italiana è stato sempre un genere vilipeso, sottovalutato, ritenuto meno nobile, quasi di serie B. Persino negli anni del suo boom (dal ‘58 al ‘64 più o meno) anni in cui mentre il Paese viveva un periodo di grande crescita, la commedia raccontava l’altra faccia della medaglia: la fine di una Italia agraria, umile e provinciale, travolta dalla volgarità della nuova borghesia urbana e dalla perdita dei valori. Sono gli anni di Monicelli con “I soliti ignoti” (1958), di Risi con “Il vedovo” (1959), “Il Sorpasso” (1962) e “I Mostri” (1963), di Giorgio Bianchi con “Il moralista” (1959). E di grandissimi attori quali Sordi, Manfredi, Tognazzi, Sandrelli.
Poi comincia la crisi. Siamo nel ’64, l’economia italiana inizia la sua discesa e il governo Moro invita apertamente a limitare le spese. La commedia si fa intimista e racconta il privato (vedi “L’ombrellone” (1966) di Dino Risi, “Fumo di Londra” (1966) e “Un italiano in America” (1967) di Sordi, “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?” (1968) di Ettore Scola, “La ragazza con la pistola” (1968) di Mario Monicelli). Affiora in molte opere una vena di polemica civile: il tema del divorzio è presente in tutte le salse (“Signore e signori” (1966) di Germi, “Amore mio aiutami” (1969) di Sordi, per citare due esempi all’opposto). E fanno capolino i sintomi dei grandi sconvolgimenti che sfoceranno nel ’68 (“Il profeta” (1968) di Dino Risi, “Contestazione generale” (1970) di Luigi Zampa).
La verità è che l’Italia di quei tempi è in continuo fermento: la commedia non riesce quasi a tenere il passo degli italiani e a raccontarne i repentini cambiamenti. Ed è così che arriviamo agli anni ’70. Pietrangeli, Germi, De Sica non ci sono più. Comencini, Risi, Monicelli hanno ampiamente superato la sessantina. Il Paese sprofonda negli anni di piombo: c’è davvero poco da ridere. La commedia si appesantisce e il lieto fine quasi scompare. Di quegli anni ricordiamo “Un borghese piccolo piccolo” (1977) di Monicelli, “Il mostro” (1977) di Luigi Zampa, “Lo scopone scientifico” (1972) di Comencini, “Amici miei” (1975) di Monicelli, per finire con i due capolavori di Scola, “C’eravamo tanto amati” (1974) e “La terrazza” (1980). Il grande cinema nell’ambito della commedia italiana, si può dire, finisce qui.
Gli anni ’80 sono caratterizzati dal filone trash (Alvaro Vitali, Tomas Milian, Lino Banfi, Paolo Villaggio, Diego Abatantuono), e dalla nascita di nuovi registi e interpreti comici quali Verdone, Troisi, Nuti, Benvenuti, Benigni, i fratelli Vanzina. La qualità generale è certamente più bassa e il linguaggio è meno compatto rispetto ai canoni di un tempo, vista anche l’influenza della televisione, fatta di sketch e di frammenti, senza una visione globale. In gioco nei vari film è spesso un personaggio unico, centrale, con la sua comicità che nulla ha a che fare con il trasformismo dei “mostri” del passato.L’Italia si fa sempre più “italietta” tra uno yuppies di troppo e un filmetto vacanziero per lobotomizzati. Negli anni ’90 le cose non migliorano. I vari Villaggio, De Sica, Boldi, Pozzetto, Frassica, Greggio, Abatantuono sono protagonisti di film che constano di una serie di gag vuote, volgari e sempre meno riuscite, accompagnate dallo sfoggio della “bellona” di turno. A risollevarci un po’ (ma solo un po’), arrivano per fortuna anche Salemme, Pieraccioni, Veronesi, continuano Verdone e Benigni e ci traghettano verso i giorni nostri Comencini, Muccino, Soldini, Virzì. Con loro arrivano nuove, interessanti, odierne e più profonde riflessioni che però non ci bastano per non farci rimpiangere il tempo della commedia che fu. Sarà perché in un’Italia di cui ancora non ci vergognavamo del tutto, ci sentivamo innocenti a ridere delle sue parti un po’ difettose, mentre in un presente dove è il totale che fa orrore, ormai ci viene solo da piangere. O sarà perché semplicemente, ciò che ci sembra già fatto e rifatto, ma in peggio, non può più farci saltare dalla sedia. E nemmeno da una poltrona del cinema.