The

A look outside the water
by Luisa Scarlata

Genitori e figli.

Genitori e figli.

La genitorialità viene vissuta dalla maggior parte della gente secondo questo criterio: “Noi ti abbiamo messo al mondo, per questo devi ringraziarci“.

Per pochi altri, invece, essere genitori parte da un’idea che è esattamente opposta, ovvero: “Poiché non sei stato tu a scegliere di venire a questo mondo, ma lo abbiamo deciso noi, saremo in debito con te – di sostegno, in ogni sua forma – per tutta la tua vita“.

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May 10th, 2016

Are Apple customers still able to “Think Different”?

Are Apple customers still able to “Think Different”?

credit: bynonato

Once upon a time there was a fantastic campaign against tobacco. To discourage young people from smoking, the campaign visuals displayed some parents in the act of smoking cigarettes. The super incisive headline said: “How can it be so cool if your mother does it too?” (or “your father” depending on the image).

Maybe it’s my “advertising” way to think, but I’m pretty sure that today, that campaign, could be used for Apple products. I imagine a picture of my father with an iPad in his hands (I could do it easily, indeed) while the headline says: “How can it be so cool if your father has it too?”.

To get to the point, another advertising example. Are we really sure that Apple users, today, are still able to think different? “Think Different” declaimed one of the most renowed Jobs slogan. And it meant a lot of things, but above all, it was an invitation, almost an imperative, to not homologate. Now, have you ever been inside the New York City subway lately? Homologation is nothing! The challenge is trying to find someone that doesn’t have an iPhone in his hands. This is why we can say that today the “Think Different” slogan could be easily used by the competitors towards Apple (and I hope that Steve Jobs can’t hear me).

Yet, I think I’m not really far from the truth. Even the first Apple tv commercial (Macintosh 1984), the historic one in which all equal people moved like androids, today rings nearly like a mock. Because today, seeming all scary equal, are exactly Apple customers. Too much, everyone: fans and not, professionals and not, capables and not, honest to God and not, young people and not, lovers and not. Expecially not.

The real problem is that Apple is becoming addictive. We must look around and start creating Apple rehabs. Weird that nobody did it yet (or maybe yes?). Because, let’s tell the truth, how can it be healthy that in just one family – or worst – that just one only person owns at the same time four Apple computers, one Apple Watch, two iPad, three iPhone, two iPod, all more or less mini?

Riding this addiction, by now, every six months (faster than humans), Apple gives birth to new versions that push into suicide the older ones (however still immaculate) and induce compulsive purchase of the new ones – (please watch this!) – without any need or, at least, one minute of healthy remark. “I must have the latest” seems to be the new obsession. And, above all, I must shout to the entire world (that is “I have to tweet”) that I just bought it. It’s not anymore “I have the biggest” (if often the opposite) but “I have the latest”.

Come on, people even sleep outside Apple stores, on the hard paving, just to… buy. In the past we used to do that to see the Beatles. Could there be something more sad than this? Or noxious?

The truth is that tomorrow, the one who will have the courage to return to sender the next mini, air or iPhone, will be able to say “I think different”. For real.

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December 3rd, 2015

“La bestia” e la vergogna.

“La bestia” e la vergogna.

C’è un libro, un libro che sto leggendo, che mi fa sentire unconfortable, come direbbero gli americani, a disagio. Perché è un libro che mi fa vergognare di me, della mia condizione, della mia vita, della mia fortuna. Il volume si intitola “La Bestia” ed è scritto da un coraggiosissimo “reporter” che di nome fa Óscar Martínez.

In genere mi porto i miei libri ovunque vada, per approfittare di qualsiasi momento utile per leggere. Eppure…eppure questo libro è uno di quelli che bisogna rispettare, che non si può leggere dal parrucchiere con la tinta in testa, in spiaggia mentre si ruba il primo sole o al bar mentre si addenta un cornetto o si sorseggia il cappuccino più buono della città. Come dicevo, ciò mi mette in totale disagio perché mi pare un ulteriore affronto, una profonda mancanza di rispetto verso ciò che sto leggendo, verso le storie assurdamente dolorose e vere che vengono fuori dalle pagine di questo libro.

Per capirci, io sono seduta al sole, in una comoda sedia e assaporo il mio caffè caldo mentre leggo di un immigrato messicano, uno dei tanti, che sogna di raggiungere il Nord America, in cerca di una vita migliore, di una vita più giusta; per questo motivo sta aggrappato sul tetto di un treno, di notte. Questa persona non dorme da giorni e sebbene abbia continuato a ripetersi di non mollare mai il suo appiglio, di restare sveglio, dopo ore di freddo e di vento e di fame e di paura cade a sua insaputa addormentato. Sono pochi secondi che bastano per farlo scivolare giù. Il movimento lo sveglia ma è troppo tardi: una delle sue gambe è già finita sotto le rotaie del treno e adesso, l’uomo può vederlo, non c’è più. Così il suo ultimo pensiero è più forte del dolore: “chi mi prenderà mai a lavorare al “norte” con una gamba sola?“. E’ di nuovo un altro attimo e l’uomo si butta giù, sotto al treno, a raggiungere la sua gamba. In quello stesso momento, torna il cameriere e mi chiede se voglio un altro caffè o magari una bella fetta di torta al cioccolato. L’hanno appena fatta.

Come si fa a non avvertire la dicotomia, l’imbarazzo? Noi siamo di qua a bere cappuccini caldi; da un’altra parte, altri esseri umani come noi, sono aggrappati ai treni in corsa; noi non sappiamo se mangeremo una torta, loro non sanno se arriveranno vivi.

Questo siamo, così va il mondo. C’è qualcosa, anche piccola, che si può cambiare? Non leggerò questo libro al bar, né sdraiata su di un comodo divano ma in fondo dove potrei mai leggerlo senza provare comunque una profonda, ineluttabile vergogna? Così penso che sebbene mi metta a disagio è un bene che io continui a leggere questo volume, anche se sono in spiaggia. Perché capire cosa c’è dietro ad una etichetta, in questo caso quella di “immigrato”, è fondamentale per mettere in atto qualsiasi tipo di cambiamento. Così mi vergognerò, mi sentirò a disagio ma sarà sempre meglio di vivere come coloro che questi sentimenti non li provano; perché non sanno, perché sono ignoranti e quando scorgono un barcone arrivare sono capaci di vedere esclusivamente un nemico e non un uomo solo, su un treno, che ha appena visto la sua gamba rotolare via dietro di lui.

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May 6th, 2015

O capitano mio capitano.

O capitano mio capitano.

Captain Phillips – Attacco in mare aperto” è un pluripremiato film biografico – di genere drammatico – diretto da Paul Greengrass e interpretato nel ruolo principale da Tom Hanks. In “Captain Phillips” si racconta la storia realmente accaduta alla nave porta container americana “Maersk Alabama” vittima di un violento sequestro, nel 2009, da parte di una banda di pirati somali.

Protagonista principale della vicenda è il capitano della nave container, ovvero Richard Phillips (interpretato da un eccezionale Tom Hanks), un uomo coraggioso che combatte in prima linea contro l’assalto dei pirati somali e che per questo subisce le conseguenze più drammatiche e pesanti…

E’ un vero e proprio “filmone” quello di Greengrass: adrenalico, possente, costruito e raccontato egregiamente senza l’ombra di un inciampo tanto da far volare letteralmente i ben 135 minuti della sua durata. A farla da padrone è poi ovviamente l’incredibile vicenda accaduta alla “Maersk Alabama”, al suo equipaggio e sopratutto all’impavido capitano che la conduce. Una storia che non può che colpire duramente chi guarda, trattandosi non di fantasie bensì di un fatto realmente accaduto.

“Captain Phillips” trafigge lo spettatore perché è una pellicola fatta di contrasti, di proporzioni “sballate”: 4 uomini contro 20, barchette sgangherate contro giganti del mare, poveri contro ricchi, proiettili contro spruzzi d’acqua. Sembra facile capire dove sta la forza e dove invece le debolezze eppure non è sempre così scontato. Una barca di legno, ebbene sì, può mettere in ginocchio una mastodontica chiatta; il mondo dei poveri si scaglia contro quello dei ricchi seppure in quel frangente i ricchi sono carichi di beni da regalare ai poveri.


In questo mare di spiazzanti opposti e di sconcertanti contraddizioni solo i due capitani, paradossalmente, finiscono per somigliarsi e per suscitare in chi guarda sentimenti simili. Segno che forse in salute o pelle e ossa, bianchi o neri, in attacco o in difesa non siamo poi così diversi. Abbiamo tutti drammaticamente torto e anche un po’ di ragione.

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July 25th, 2014

Non sono mai andato a scuola.

Non sono mai andato a scuola.

credit: atuperlu

Lui si chiama André Stern, di lavoro fa il compositore, il musicista, il liutaio, lo scrittore e il giornalista. Vi state chiedendo quanti master ha fatto nella sua vita? La risposta è “zero”. Anzi, per la precisione André – 41 anni oggi – non è mai andato a scuola.

Suo padre infatti, (Arno Stern, ricercatore e pedagogo franco tedesco) era un fermo sostenitore del fatto che ogni bambino, per crescere in maniera sana, deve essere lasciato libero di seguire le sue inclinazioni naturali. In parole povere deve essere lasciato libero di imparare giocando e osservando, lontano da tutte le forme di scolarizzazione, senza condizionamenti, senza competizione, senza un programma prestabilito.

La sua esperienza è stata vincente e affascinante: suo padre, di certo, era un tipo alternativo. “Ma i miei non erano dei fricchettoni, né io lo sono mai stato”, ci tiene a precisare André che oggi, naturalmente, con sua moglie ha fatto le stesse scelte.

“Mio figlio non va a scuola – racconta – ma non è confinato in casa né in famiglia. Più si apre al mondo più impara: lo sapete bene, i bambini hanno le porte spalancate. Ovunque vadano c’è chi si interessa loro. Un giorno un contadino ha portato mio figlio su un trattore, gli ha spiegato come si semina, come crescono le cose che mangiamo, in due ore di gioco ha imparato più di quanto la scuola ti può insegnare in un giorno. E il contadino mi ha ringraziato commosso; nessuno, tantomeno un bambino di 4 anni, gli aveva fatto così tante domande sul suo lavoro”.

Poi André torna a parlare dei suoi ricordi: “Sono stato privilegiato per le scelte che hanno fatto i miei genitori. I bambini che conoscevo non avevano tempo per giocare. Io mi sono fatto un’opinione personale: il gioco è l’apprendimento primario, non c’è differenza tra giocare ed imparare a vivere. Ancora oggi, non conosco la differenza tra giocare ed imparare. Io potevo giocare tutto il giorno. Non dovevo trovare scuse per non andare a letto, per non interrompere il gioco, né dovevo preoccuparmi delle cose da fare il giorno dopo, perché avrei ripreso il gioco là dove l’avevo interrotto il giorno prima…”.

Parlando dei suoi genitori, poi, André è laconico: “Non vivevo in casa della mia famiglia: vivevo CON la mia famiglia. Non ho conosciuto i traumi e le ribellioni dell’adolescenza”.

André ha sempre seguito liberamente le sue ispirazioni. Ha imparato a suonare la chitarra classica a 4 anni da un vecchio gitano rifugiato in Francia (da piccoli non abbiamo mai ricevuto strumenti musicali giocattolo, precisa). Poi a 14 anni, una chitarra se l’è costruita da solo. Con i Lego, sempre a 4 anni, ha scoperto i principi della geometria guardando le forme costruite e della matematica contando i bottoncini di incastro su ciascun pezzo.

Poi si è fissato con i treni ed ha cominciato a costruirseli da solo (tra gli 8 e gli 11 anni). A 10 si è dedicato alla fotografia guardando i libri che i suoi portavano in casa. Intanto, ogni settimana, redigeva un bollettino di famiglia di quattro paginette, scritte e illustrate, da spedire ai nonni che vivevano lontani. Ancora, a 11 anni, André si è messo a studiare il latino perché la madre lo faceva per conto suo. A leggere bene ha imparato solo a 8 anni, “ma i miei non ne facevano certo un dramma” – dice.

“Sapete cosa fa crescere il cervello di un neonato? – domanda sempre Stern ai giornalisti e alle platee che lo ascoltano durante le sue conferenze. L’entusiasmo”. Un fatto certificato dagli studi del neurobiologo Hüther con il quale André collabora. “Un bambino piccolo prova una sensazione di entusiasmo da 20 a 50 volte al giorno, soprattutto quando scopre qualcosa di nuovo: tutto questo mette in moto una processo chimico che fa crescere le terminazioni nervose del suo cervello, rendendolo ogni giorno più forte e ricettivo.

Un neonato progredisce proprio perché spronato da questa linfa benefica. La tempesta emozionale che subisce è una sorta di doping casalingo”, semplifica André. “Il cervello si sviluppa nella misura in cui è usato con entusiasmo“, ribadisce da parte sua il neurobiologo Hüther.

Per crescere, i bambini hanno bisogno di reggersi su tre pilastri dice André: entusiasmo, fiducia e gioco. Tre cose che ogni genitore è in grado di offrire, gratis. I nostri figli hanno fiducia in noi, siamo noi che non ne abbiamo in loro!” – esclama infine convinto.

E dopo aver letto o ascoltato quest’uomo, invece, sono le nostre convinzioni in merito alla scuola ed ai sistemi educativi di prassi, che vacillano. Eccome.

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June 27th, 2014

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