The

A look outside the water
by Luisa Scarlata

“Bruce” (scavando nella colonna sonora della mia vita).

“Bruce” (scavando nella colonna sonora della mia vita).

credit: luisa

Disponibile in Inglese

Come ho scritto in un recente tweet, sto leggendo il meraviglioso libro di Peter Ames Carlin “Bruce”: una lettura che mi scuote l’anima, perché è come scavare all’interno della colonna sonora di tutta la mia vita.

Anche per me Springsteen è semplicemente Bruce: un amico, un compagno, un alter ego, la voce del cuore dei “mazziati e giusti”. E di sicuro non è il Boss, un soprannome che anche lui giustamente detesta (capo, del resto, non è quasi sempre sinonimo di stronzo?).

Nella mia vita, Bruce ci è entrato con The River, su una superstrada spianata che portava dritta ad accapponarmi ogni poro della pelle. Ne ho sentite – e viste in Betamax (le cassettone che si infilavano ai mie tempi nel videoregistratore) – decine di versioni, tutte quelle esistenti, credo. Una, però, mi lasciava senza fiato più di tutte: quella con la lunghissima intro parlata che faceva piangere anche lui, quando la recitava dal vivo. Non so se l’avete mai ascoltata, ma se avete voglia di provarci non dimenticate i fazzoletti.

Bruce l’ho seguito poi tutta la vita e anche lui, mi piace pensare, alle volte ha seguito me, nascondendosi dietro bizzarre coincidenze. L’ho sempre amato dal profondo e nonostante una lunga serie di sbandate musicali – l’infatuazione più grande quella per i Cure – non l’ho mai tradito sul serio.

Perché a tutto volume o di sottofondo, nella mia vita, a suonare c’è sempre stato lui. Sopratutto quando andavo sotto di brutto. “Come on rise up“. E mi tiravo su. “If I should fall behind wait for me“. E qualcuno si fermava ad aspettarmi. “I wish I were blind when I see you with your man” e persino la peggiore delle delusioni si trasformava in poesia.

Un po’ come Ames, nel 2004, ho provato anch’io a cercarlo più da vicino. Una vacanza a New York si è inevitabilmente trasformata in un indimenticabile tour nel suo New Jersey. E’ stato così che ho camminato sul boardwalk di legno di Atlantic City e di Asbury Park, quello della sua copertina-cartolina; che ho lisciato con la mano il legno del gabbiotto sulla spiaggia di Madame Marie; che ho messo piede – il mio piede – nell’atrio di quel tempio sacro che è lo Stone Pony; che ho girato in tondo per le stradine di Freehold cercando di captare l’odore per me mistico degli Springsteen; che ho mangiato sul serio la pizza da Federici’s, con gli occhi incollati non di certo sulla mozzarella ma sulla miriade di foto di Bruce appese quasi tutte storte alle pareti di questa leggendaria pizzeria.

Poi sono tornata a casa – che sta per la mia vita – ma senza chiudermi la porta alle spalle, di modo da sentire meglio quel suo invito che rigiro sempre in più occasioni a me stessa: “Mary salta dentro, è una città piena di perdenti e io me ne sto andando per vincere“.

Last updated

January 7th, 2013