“La notte brucia ancora”. Intervista a Giommaria Monti.
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GIOMMARIA MONTI E’ GIORNALISTA, SCRITTORE E AUTORE PER LA TV. HA LAVORATO PER RAI E MEDIASET E A QUATTRO PROGRAMMI DI MICHELE SANTORO. PER LA7 SI E’ OCCUPATO DI OMNIBUS. NIENTE DI PERSONALE, TETRIS, GLI SPECIALI DEL TGLA7. IL SUO ULTIMO LIBRO E’ “LA NOTTE BRUCIA ANCORA” EDITO DA SPERLING&KUPFER.
Giommaria Monti, lei torna a scrivere con un libro che racconta fatti importanti e dolorosi. Cosa l’ha spinta a ripercorrere la vicenda del Rogo di Primavalle a 35 anni da quei fatti?
La storia incredibile di quella vicenda. Gli anni ’70 sono un rosario di storie drammatiche, di sangue e ragazzi uccisi per nulla: un manifesto incollato, un paio di ray-ban e gli stivaletti a punta, Lotta Continua infilata nella tasca del jeans. Ma la storia del rogo di Primavalle è un condensato dell’atrocità degli anni di piombo. Avevo letto Cuori Neri, il libro di Luca Telese sulle vittime del terrorismo di destra, storie dimenticate. Ne ho parlato con Luca che mi ha proposto di scrivere la storia di Primavalle, raccogliendo il racconto di Giampaolo Mattei, il più piccolo dei fratelli sopravvissuti al rogo. Ho accettato subito e mi sono messo a lavorare di buona lena. Mi sono prima letto tutto quello che c’era in giro, compreso un libro pazzesco uscito un anno dopo la strage, Incendio a porte chiuse. Un libro dettagliatissimo, documentato con le perizie di parte (quelle della difesa degli imputati), gli articoli dei giornali, l’armamentario ideologico necessario a sostenere due tesi. La prima semplicemente infondata: i tre accusati, Lollo Grillo e Clavo, erano innocenti e vittime di una montatura della polizia fascista collusa con i magistrati fascisti (un tempo i magistrati erano neri, oggi sono rossi….). La seconda invece aberrante: la strage era frutto di una faida interna (proprio così, col linguaggio mafioso) dei fascisti della sezione di Primavalle di cui Mario Mattei, il padre delle vittime, era il segretario. O peggio che l’attentato se lo potessero essere fatti da soli, per dare la colpa ai rossi. Per me, uomo di sinistra, è stato dolorossimo leggere quelle pagine. La follia ideologica che ha accecato gli animi negli anni ’70 ha prodotto non solo morti e orrore, ma anche atrocità ideologiche, misfatti e bugie infami. Penso a Calabresi, ai Mattei appunto, a Walter Tobagi. Dopo questo lavoro di documentazione, compresi gli atti giudiziari, ho fatto una serie di conversazioni con Giampaolo, che poi ho ricucito.
Questo libro è scritto appunto a quattro mani con Gianpaolo Mattei, fratello minore di Virgilio e Stefano, vittime del rogo.
Come è stato rivivere quei momenti insieme a chi quella notte c’era e ha vissuto in diretta l’orrore di quella perdita?
Con Giampaolo, che non conoscevo, è stato semplice e difficile. Nella sede della sua associazione abbiamo fatto una serie di conversazioni (non interviste, ma chiacchierate) con il registratore acceso. Lui a tratti rispondeva, a tratti parlava d’altro e divagava. Rifuggiva spesso l’elemento emotivo per ovvie ragioni. La cosa più complicata è stato parlare della foto di Monteforte. Pochi minuti dopo l’incendio, a via Bibbiena arrivarono i fotografi perfino prima dei pompieri. Tra questi c’erano il futuro marito di Mina e il più bravo dei fotografi della nera del Messaggero: Antonio Monteforte. Il quale fa una foto incredibile: dalla finestra dell’appartamento in fiamme si affaccia Virgilio, completamente carbonizzato ma ancora vivo. La gente, compreso il padre, sotto gli urla “Buttati! Buttati!” (sono le cronache dei giornali di quella notte), ma lui resta lì. Alle sue gambe c’è avvinghiato Stefano, il fratellino di 10 anni che morirà con lui nel rogo. Monteforte scatta la foto dell’orrore: il ragazzo mentre muore bruciato vivo. Per noi giornalisti, lo scriviamo nel libro, è la foto-simbolo del terrorismo: come il cadavere di Moro nella Renault4, l’autonomo che impugna la P38 a Milano, l’orologio fermo sulle 10.25 della stazione di Bologna. Per loro è uno strazio indicibile, ancora oggi. Nel libro raccontiamo cosa accade intorno a quella foto. Poi Giampaolo mi ha raccontato la sua curiosità di bambino che spiava i racconti dei grandi, la scatola dei ritagli dei giornali del padre. Ho parlato con la madre e le sorelle. Le registrazioni hanno riempito una decina di nastri che una collega alla quale devo molto, Desy d’Addario, ha sbobinato e raggruppato per argomenti, consentendomi di lavorare agevolmente su un materiale magmatico. Infatti grazie a questo lavoro ho scritto il libro in due mesi. Di getto, come di getto infatti si legge. E’ una testimonianza, soprattutto. Ma anche un ragionamento su cosa sono stati quegli anni e sulle parole che sono corse per spiegarli, dargli forma, spesso giustificarli. Tipo la guerra civile strisciante, gli opposti estremismi, l’essere stati tutti vittime e carnefici.
Il titolo del libro “La notte brucia ancora” rimanda alla sofferenza per un dolore mai spento né pacificato. Il dolore di chi non ha avuto giustizia. C’è ancora speranza per la famiglia Mattei di ottenerla? E cosa è cambiato oggi rispetto a 35 anni fa?
Il titolo riassume il senso del libro. Intanto richiama la bellissima e potente testimonianza di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. La notte brucia ancora è la metafora di quel rogo che ancora vive sulla pelle delle vittime e nelle polemiche che sembrano senza uscita. Lo sforzo che bisogna fare, e al quale libri come questo vogliono contribuire, è che si esca da questa gabbia ideologica per ragionare su quegli anni e trovare il filo che ricucia le molte lacerazioni che ancora sanguinano. Le vittime, compreso Giampaolo, chiedono insieme verità e giustizia. Ecco, io credo che ormai una parte considerevole della giustizia sia proprio la verità. Per Primavalle i reati sono prescritti. Nel 1974 ci fu il processo di primo grado che si concluse con l’assoluzione per insufficienza di prove. C’era un solo imputato alla sbarra, Achille Lollo. Grillo e Clavo sono latitanti da subito. Tredici anni dopo la strage, l’appello. E’ il 1986, il processo dura quindici giorni e si conclude con la condanna dei tre di Potop per incendio doloso e omicidio colposo. In tutto 18 anni. Il reato più grave è l’omicidio colposo, 8 anni. La legge prevede che quando passa il triplo del tempo della pena e questa non viene eseguita, il reato va in prescrizione. I tre sono in Sudamerica e ci restano. Nel 2005 il reato va appunto in prescrizione. A quel punto Lollo fa un’intervista al Corriere e dice: siamo stati noi, ed eravamo in sei. Insomma, come diciamo nel libro, la pista della faida interna si rivela per quello che è sempre stata: un’oscena bugia della quale tutti avevano bisogno. A reato prescritto, i tre sono impunibili. La giustizia penale, quindi, non può più esserci per la famiglia Mattei. Resta la verità. E quella, come il dolore, non si prescrive.
Cosa l’ha emozionata di più nello scrivere questo libro? C’è qualcosa oltre le 173 pagine già pubblicate che vorrebbe ancora condividere con chi l’ha letto o lo leggerà?
La cosa che mi ha emozionato di più è la consapevolezza che tutto il vertice di Potop sapeva da subito cosa era accaduto. E invece di denunciarli li fanno espatriare e costruiscono la calunnia. Non è emozione, è rabbia e dolore. Due mesi dopo la strage, quando Lollo è già in carcere e Grillo e Clavo latitanti, i vertici di Potop (Scalzone, Pace, Morucci) svolgono un’inchiesta interna. La raccontano in diversi libri (Valerio Morucci in “Ritratto di un terrorista da giovane” nel 1999). Racconta come, da capo della sezione romana di Potop, raggiunga Grillo nelle colline senesi e lo interroghi con una pistola PKK col silenziatore sul divano. Grillo gli racconta tutto. E così altri dicono che tutti sanno. La strage di Primavalle è del 16 aprile del 1973. A fine maggio di quell’anno a Rosolina, in Veneto, c’è il congresso clandestino di Potere Operaio nel quale si scontrano le due anime di Potop: quella movimentista di Toni Negri e quella armata di Valerio Morucci. Negri apostrofa Morucci dicendogli: un movimento come quello che fa Morucci è solo capace di bruciare dei ragazzini. Ecco, leggere queste cose è stato per me particolarmente difficile. Non ho mai avuto nessuna simpatia per il movimentiamo degli anni ’70, tantomeno nessuna indulgenza. Ma al disprezzo politico per come hanno soffocato la democrazia e la storia di questo paese si è aggiunto il disprezzo umano ed etico per queste persone. Gente che ancora oggi pontifica sui giornali. Per me hanno perso per sempre il diritto di parola. Quando ripenso a quello che hanno potuto dire, oltre a quello che molti di loro hanno potuto fare, ho i conati di vomito.
Il 9 maggio, giornata delle vittime del terrorismo, il Presidente della Repubblica ha parlato di morti innocenti, di storie umane dietro ogni delitto che bisogna ricordare…
Le parole del capo dello stato le ho trovate bellissime. Le ricordo a memoria: “Abbiamo cercato di restituire, di consegnare alla memoria degli italiani, l’immagine – i volti, i percorsi di vita e di morte – di tutte le vittime. I percorsi di vita, innanzitutto: perché non è accettabile che quegli uomini siano ricordati solo come vittime, e non come persone, che hanno vissuto, che hanno avuto i loro affetti, il loro lavoro, il loro posto nella società, prima di cadere per mano criminale. Le ricordiamo tutte, come vittime e come persone, dalle più note ed illustri alle più modeste, facilmente rimaste più in ombra. Tutte, qualunque fosse la loro collocazione politica e qualunque fosse l’ispirazione politica di chi aggrediva e colpiva.” La notte brucia ancora racconta uno di questi percorsi: di vita e di morte. Quello di Giampaolo Mattei e della sua famiglia. Le vittime di quegli anni sono tutte innocenti: erano ragazzi di vent’anni che non spacciavano droga, non avevano stuprato né rapinato banche o sequestrato nessuno. Quelli se la sono cavata con poco. Quelli che sono stati uccisi attaccavano manifesti, come Paolo Di Nella. Oppure facevano attività nel quartiere contro gli spacciatori, come Valerio Verbano. La benzina incendiata nella notte degli anni ’70 non si è ancora spenta. Onorare quei morti significa ricordarli, innanzitutto, per quello che sono stati. Per come sono vissuti, non solo per come sono morti.
Nel corso degli anni lei ha parlato – e scritto – di Falcone e Borsellino, di usura, dell’epoca del ’68. Poi, un libro dedicato a Francesco De Gregori. Un’eccezione che conferma la regola oppure niente regole?
Può sembrarle strano, ma c’è un filo che lega questi libri, un percorso. Sono la memoria e il coraggio. E’ così per Falcone e Borsellino, dei quali ho ripercorso con i documenti le infamie e le calunnie delle quali sono stati oggetto; è stato così per i Mattei e Primavalle. Il libro sul ’68 è in realtà un dizionario che ripercorreva dieci anni fa attraverso delle voci (lo ha ripubblicato questo mese L’Unità con il titolo Le voci del ’68) l’anno che ha davvero cambiato la storia del mondo. Poi tutto si è disintegrato e ha preso percorsi diversi. De Gregori invece è un’antica passione che dura da trent’anni, cioè da sempre. Scrivere un libro su tutti i suoi dischi è stato attraversare la storia dell’Italia di tre decenni. E questo il libro è. Non a caso ne parliamo proprio ne La notte brucia ancora, citando Viva l’Italia, l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura. De Gregori è una delle persone più cristalline che tu possa incontrare. La sua magnifica arte meritava un racconto dettagliato perché ci sono molte storie che si intrecciano nelle sue canzoni. E per me raccontare storie è un istinto. Come per il rogo di Primavalle. Non a caso la rubrica che tengo settimanalmente sui quotidiani E-Polis si chiama Poche storie.