This article is about religion. Maybe. Because in front of some things – we have to confess it – we honestly remain a little bit baffled. Do you remember the Saint Rosary? The necklace with little prayer beads that our grandmas used – precisely – to pray? Well, today the same Saint Rosary with little prayer beads used to pray and meditate is on sale – yeah, that’s true!- in a lot of different digital formats. If you think that I’m joking (and you could be right), you are going to change your mind.
The digital rosary, we have to say it immediately, speaks. In a few words it does everything instead of you (in the teeth of the saint sacrifice that praying demands). You turn it on and, like a miracle, the tech item “innovative, cosy and portable” (like advertising describes) says all the entire rosary through a soloist with even a replying choir. But don’t worry: for the happiness of less lazy people, the digital rosary permits to reply at the Ave Maria like usual. But that’s not all. When you buy it, the digital rosary comes to you with hands-free kit and headphones, interchangeable memory card of the “Mystery of the Marian’s Rosary” performance in different languages and a trendy suitcase to put it away. Then, if you ask for it, you can choose also from different colors and aesthetical designs, very important things when it comes to pray. Well, then, how do you want your digital rosary? Blue? Red? With the image of the Sacred Heart of Jesus or with the Sacred Heart of Maria? These are real problems…
The fact is that now (with the blessing of our grandmas who came back exhausted and voiceless after the effort and the penitence of the rosary practice) it’s possible to “pray” even in the subway, with earphones and our digital rosary sparkling more then a new IPod. What has all this to do with religion, sacrifice and prayer it’s difficult to say. Or maybe it can be plain explained by a New York Times online sentence: “In the future, all religious duty shall be performed by machines, leaving humanity’s time free for more sinning.” Totally clear. Amen.
“Il mio gatto oggi ha mangiato Paul Newman”. Detta da un americano questa frase – per quanto assurda a noi possa sembrare – ha invece molto senso. Già perché se da noi Paul Newman (il celebre attore, regista e produttore cinematografico statunitense morto di cancro ai polmoni il 26 settembre del 2008) è sinonimo di grande interprete, di mito hollywoodiano, di star, divo, uomo- bellissimo-con-gli-occhi-azzurri-più- incredibili-del-mondo, eccetera eccetera, negli USA Newman è anche sinonimo di pomodori, biscotti, olio, vino, salse, succhi di frutta, caffè, cioccolata e persino – ebbene sì – cibo per cani e gatti.
Ma cominciamo dall’inizio. Siamo negli anni ‘80 e Paul Newman è già da tempo un attore super affermato e famosissimo. Questo però non gli basta. Oltre al mondo del cinema, infatti, Newman ha da sempre molte altre passioni come la corsa con le macchine e l’amore per il buon cibo. E’ così che, insieme all’amico e scrittore Aaron Edward Hothner, decide di fondare – nel 1982 – la “Newman’s Own”, un’azienda che produce e distribuisce prodotti alimentari. Newman è talmente entusiasta del progetto che sceglie fin da subito di metterci letteralmente la faccia: il suo volto infatti, campeggia – segno inconfondibile – in tutte le etichette dei prodotti “Newman’s Own”. L’azienda di Newman riscuote, come era facilmente prevedibile, immediato successo: tutti vogliono assaggiare un pezzo di cinema e provare i fantastici prodotti del grande Paul! (i bambini americani impazziscono per i “Newman-O’s”, biscotti simili ai celebri “Oreo”).
Ed è così che entra in gioco anche la passione più nobile del celebre attore, ovvero quella per la beneficenza. Newman, se così si può dire, “approfitta” del successo della sua azienda e decide che tutti i guadagni che ne derivano (più di 250 milioni di dollari nel 2008), dopo le tasse, devono essere devoluti in offerta per progetti dedicati all’educazione dei bambini e all’ambiente. Il principale beneficiario della generosità di Newman e della “Newman’s Own” diventa dunque “Hole in the Wall Gang Camp”, un campo estivo che ospita tutti gli anni migliaia di bambini da tutto il mondo con problemi di salute (il nome del campo deriva da un luogo del celebre film del 1969 “Butch Cassidy”). Allo stesso tempo Newman pubblica il libro di cucina ufficiale della società, il “Newman’s Own Cookbook” – edito da Simon & Schuster – e soprattutto, insieme alla figlia Nell, aggiunge alla sua azienda una importantissima divisione “organics”, ovvero che tratta esclusivamente prodotti biologici.
Ora che Paul Newman non c’è più il suo mito continua a vivere negli indimenticabili successi cinematografici che lo hanno visto protagonista e nei prodotti genuini e appetitosi della “Newman’s Own” e “Newman’s Own Organics”. Nel suo testamento l’attore ha lasciato alla sua fondazione benefica “Newman’s Own Foundation” i tre premi Oscar da lui vinti e soprattutto il compito di continuare a distribuire i proventi dell’azienda in beneficenza.
Grande Paul: buono come il pane. E con il pane.
“Trick or treat?” urlano divertiti e travestiti da streghe, fantasmi e vampiri i bambini di tutta l’America la notte del 31 ottobre. Perché è questo che, secondo la tradizione, fanno i morti la notte di Halloween: tornare sulla terra per fare scherzi, a volte anche pericolosi, ai più fortunati viventi. E dunque ecco che bisogna farsi trovare preparati e rispondere pan per focaccia: per la serie fantasmi voi, fantasmi noi. L’America poi, in fatto di preparativi, è la maestra per eccellenza. Perciò ecco che zucche, travestimenti di ogni tipo, dolci, caramelle, decorazioni per la casa, la tavola e il giardino (e che decorazioni! Ci sarebbe da uscire muniti di macchina fotografica ogni giorno) fanno la loro comparsa fin dalla seconda metà di settembre.
Dalla east alla west coast, passando dallʼOhio allʼllinois, dal Nebraska al Colorado e fino al più piccolo paesino dell’Iowa come il delizioso Grinnell, Halloween la fa da padrona. Nelle case dei ricchi come in quelle dei più poveri: del resto la morte non è forse l’unica cosa davvero democratica di questa vita? In ogni dove non c’è esercizio commerciale, super-iper-mega mercato, pharmacy, discount (negli USA ce ne sono molti a “Only 99 cents.”, ovvero tutto all’equivalente dei nostri 50 centesimi; e negli Stati Uniti quando si dice tutto, vuol dire davvero “tutto”), che non abbia un immenso settore dedicato alla festa. Non vi è vetrina che non inviti a prepararsi alla notte più dark dell’anno, non v’è giardino dell’assolata California o della bellissima contea di Orange che non venga allestito per l’occasione, con fantasmini che decorano gli alberi o enormi ragni neri che sbucano dalle (curatissime) piante.
La festa è per i bambini – il consumismo ha puntato su di loro – ma sono anche i grandi che dietro le quinte partecipano con entusiasmo. Una scusa in più per festeggiare, per creare un’atmosfera, per stare insieme, per riunirsi, per esternare. Perché esternare è la cosa che più piace agli americani. Che si tratti di politica, di beneficenza o di sport, questo popolo sbandiera i suoi pensieri ed i suoi sentimenti senza paura di essere giudicato da chi la pensa diversamente.
In Italia la festa dei morti segue a ruota, il 2 novembre. Con una “piccola” differenza: nel 1630 la chiesa cattolica mise al bando ogni rito pagano legato a questa ricorrenza, togliendo dunque alla “festa” qualsivoglia connotazione di allegria e divertimento. Da qualche anno dunque, il nostro Paese si è ribellato dando vita ad un Halloween all’italiana che, ironicamente, più triste non si può. Dimenticata ogni leggenda, ogni magia, ogni qualsivoglia poesia, accantonati la famiglia e soprattutto i bambini (che certo correrebbero non pochi rischi o si troverebbero di fronte a una lunga serie di porte in faccia se solo si sognassero di imitare il comportamento dei loro coetanei d’America), l’Halloween italiano si traduce fondamentalmente in una serie di serate in discoteca in stile carnevalesco. Insomma spesso solo una scusa in più per ubriacarsi e fare baldoria (colpa forse di un Paese, di una società che non aiuta certo a uscire dalla condizione di eterni bambini? E se così è, quanto ancora continueremo a “subire” tale condizione?).
“Trick or treat”, urlano festanti i piccoli d’America. Questo è Halloween: finché non saremo pronti ad aprire le porte, decisamente una festa che non fa per noi.
In un periodo in cui sia negli Usa che in Italia dire Chiesa o Vaticano non equivale più tanto a dire messa ma piuttosto a parlare di scandali, omertà, insabbiamenti e – orrore degli orrori – di abusi sessuali, ci piace l’idea di narrare invece una piccola ma importante storia positiva che riguarda un prete italiano. Il parroco in questione risponde al nome di Don Paolo Padrini, meglio conosciuto come “il prete tecnologico” o, ancora più esplicitamente, come “il messaggero tecnologico di Dio”. Trentasei anni (di cui undici di sacerdozio), parroco di Stazzano in provincia di Alessandria, Don Paolo Padrini è ormai noto per la sua doppia vocazione: quella religiosa e quella – ci perdoni, un po’ più profana – per la tecnologia nata fin dai tempi dell’università, tempi in cui l’originale parroco presentava la sua tesi di laurea dal titolo “Chat: Luogo e tempo della comunicazione e dell’incontro”. Del resto Don Paolo Padrini non le manda di certo a dire e, fiero del suo modo di vivere e soprattutto di condividere la religione, dichiara senza mezzi termini (in una sua intervista a Wired.it): “Facebook e le chat possono avere una funzione educativa e pedagogica. Gesù ha abitato da tutte le parti e sono sicuro che oggi sarebbe contento di abitare anche la rete”. Un prete, Don Padrini, che non passa il suo tempo a fare solo prediche positive sulla tecnologia, ma che piuttosto ha messo in pratica ciò in cui crede e ha creduto diventando così una sorta di piccola celebrità.
Don Paolo Padrini è infatti l’ideatore di “IosonoAbruzzo”, un’applicazione per iPhone a sostegno dei terremotati e soprattutto, insieme al programmatore Dimitri Giani, dell’iBreviary (https://ibreviary.com/) e del Prayer Book, applicazioni che permettono di pregare – diciamo così – via Apple, ovvero su iPhone, iPod Touch e ora anche su iPad e che hanno letteralmente spopolato su AppStore.
A raccontarlo meglio è lo stesso Don Padrini sempre online e sempre a Wired.it: “Abbiamo superato le 20mila applicazioni scaricate in tutto il mondo. Con queste applicazioni si è creata una relazione con il Vaticano che l’ha accolta con entusiasmo. E ora con il Pontificio Consiglio sto portando avanti progetti di comunicazione nell’ambito dei new media. Sono riuscito a traghettare la comunicazione della Chiesa su internet, tanto che poi è nato anche il canale di Youtube del Vaticano. Negli Stati Uniti l’iBreviary è stato visto come il primo passo della Chiesa verso questi nuovi strumenti di comunicazione con una prospettiva positiva di sereno utilizzo. E anche il Papa quest’anno ha espresso la sua apertura positiva a questi mezzi per i giovani”. Don Paolo Padrini è soddisfatto soprattutto dei riscontri ottenuti anche da parte di chi, fino all’arrivo delle sue moderne applicazioni, non era poi così vicino alla Chiesa. Racconta ancora nella sua intervista: “Molti utenti mi scrivono per dirmi che si sono avvicinati alla preghiera grazie a questi strumenti. Io credo come prete di aver contribuito a rimettere nelle mani della gente una preghiera, il breviario dei salmi, che è l’espressione del cuore dell’uomo con tutte le sue difficoltà, dalle arrabbiature all’innamoramento. È una delle preghiere più belle dell’umanità che condividiamo anche con ebrei e protestanti. Il bello di iBreviary e Prayer Book è che non sono risorse tecnologiche per la comunicazione di testi ma abbiamo fatto diventare la tecnologia uno strumento di preghiera, una piccola cappella online dove trovare Dio.” E se voi invece voleste trovare Don Paolo Padrini non avete che da connettervi su Facebook (https://www.facebook.com/pages/Don-Paolo-Padrini/202902785086).
Come si dice: provare per…credere.
La notizia è fresca ma non certo nuova: chat, social network, sms, e-mail possono generare comportamenti ossessivi, ansia e depressione. Alcuni psicologi americani lo chiamano “co-rumination”, ovvero l’esagerato bisogno, al limite del patologico, di condividere (o “mettere in piazza”) le proprie esperienze.
Il punto però è: una partecipazione di tipo virtuale corrisponde davvero al senso più puro del concetto di condivisione, ovvero di dividere con? In altre parole, se la condivisione presuppone, o meglio dà per scontata, la presenza dell’altro, non è forse una partecipazione falsata quella che avviene costantemente attraverso mezzi che, al contrario, non necessitano affatto della fisicità nello scambio?
Una volta, è vero, c’erano le lettere o il comune telefono. Al di là della maggiore scarsità dei mezzi virtuali rispetto ad oggi, era soprattutto la concezione di questi mezzi ad essere davvero differente. Ovvero la concezione che se ne aveva di “sostituti”. “Ti scrivo perché sei lontano e sono impossibilitata a vederti”. “Ti telefono perché non puoi essere vicina. In altre parole, perché non ho scelta”. Una volta, insomma, tra il vedere (di persona) e il sentire (via telefono o lettera) c’era una bella differenza ed era ovvio che potendo scegliere, tutti avrebbero preferito la prima possibilità. Proprio così: incontrarsi. Che vuol dire sentirsi davvero, guardarsi, persino toccarsi. Ed eccolo il rischio del virtuale, che può far rima con parziale o peggio, con irreale. Rapporti che sembrano più numerosi e più facili da gestire, ma che rischiano di chiuderci in una sfera protettiva che permette di esporsi senza la “fatica” di confrontarsi. (Ci) Siamo e non (ci) siamo, una parte contro il più complesso tutto. Ti concedo solo una voce, solo un pensiero che non è più spontaneo o di getto, ma sempre studiato e calcolato grazie al tempo che regala la distanza.
Senza la presenza non c’è timidezza, scompare la vergogna. Ci si sente più forti, da soli, ma con l’illusione di essere in tanti. Ed ecco che ad essere più a rischio sono gli adolescenti: più fragili e ancora incerti nella costruzione dei rapporti, perciò più esposti al pericolo di compromettere una normale e sana socialità. Giovani che comunicano da una parte all’altra della strada in chat, invece di scendere le scale e incontrarsi a metà strada per fare. Insieme. E poi, accanto e in parallelo, cresce il mondo di myspace, facebook, linkedin: nati con il lodevole intento di ampliare il proprio “parco amici” o di mettere a disposizione del mondo il proprio curriculum per allargare le possibilità lavorative, rischiano anche questi il pericolo di abuso. Avete presente quelle enormi tavolate dove nessuno riesce a comunicare davvero con qualcuno? Ecco, forse è il caso di riscoprire il piacere di una bella cenetta a quattro. Allora sì che è possibile condividere e “assaggiare” davvero qualcosa dell’altro.